Flessibilità inglese

Si parlava della differenza tra flessibilità e precarietà, concludendo che il costo della precarietà dovesse essere sostenuto (o in qualche modo controllato e ripartito in modo equo) dallo stato.
Sembra una richiesta irrealizzabile, assurda e comunista, ma non è così e basta qualche esempio per capirlo.

Pur senza conoscerne i dettagli, so che nel Regno Unito esiste la possibilità di licenziare qualcuno dichiarandolo redundant (ridondante). Se una particolare mansione non è più richiesta, l’azienda può licenziare chi se ne occupava. Qualcosa di simile alla nostra cassa integrazione con una differenza fondamentale: in cassa integrazione non si è ancora licenziati e si continua a sperare che l’azienda si riprenda dalla crisi, in questo caso si inizia subito a cercare un altro lavoro.
Inoltre, un’azienda può utilizzare questo sistema anche se non ha il minimo problema, l’unico vincolo è che non può assumere nessun’altro nello stesso incarico per un certo periodo di tempo.

Ecco che il lavoro è estremamente precario per tutti e le aziende sono libere di licenziare chiunque in qualunque momento. Chi viene licenziato però, continua a percepire il suo stipendio (o una parte di esso).
Non solo. L’azienda che licenzia continua a pagare fino a che il licenziato non ha trovato un altro lavoro e ha, quindi, enorme interesse ad aiutare il suo ex dipendente. Si incrementa così la flessibilità del mercato del lavoro.

Lo stato è il garante del gioco ed è lui che, quindi, se ne sobbarca il peso. Addirittura, nel caso in cui l’azienda non possa pagare chi è stato licenziato, interviene direttamente.precarietàflessibilitàlavoroUKredundancy

5 Risposte a “Flessibilità inglese”

  1. In Italia avviene una cosa simile con un ramo d’azienda, che può essere chiuso o ceduto a certe condizioni.

    Di solito i rami d’azienda vengono costituiti artificialmente in previsione di tagli, ammucchiando insieme persone e attività di cui l’azienda vuol liberarsi.

    Viene dimostrato che non sono più funzionali né in attivo, e vengono chiusi licenziando il personale. Quando non si può chiudere un ramo immediatamente, lo si cede a qualcuno che lo chiuderà o cederà a sua volta.

    Il termine “spezzatino” descrive l’operazione di frazionamento e alienazione artificale di un’azienda.

    Non mi pare che questa misura abbia migliorato la flessibilità del mercato del lavoro. E’ piuttosto un modo di aggirare le tutele esistenti.

  2. Non mi sembra neppure che sia la stessa cosa. Intanto richiede una monovra complicata da parte dell’azienda per aggirare le tutele (che comunque esistono solo per gli assunti che sono una percentuale sempre minore). Ma d’altra parte, se in Italia non si aggirano le leggi non si è contenti.

    Ma soprattutto, il dipendente licenziato è ancora pagato dopo il licenziamento? Da chi? Lo chiedo perché non lo so, ma penso che il punto sia lì.

  3. Dopo il licenziamento non è più un dipendente e non prende lo stipendio. In certi casi, per certe catregorie, c’è la mobilità, che è un canale preferenziale nel collocamento per essere riassunti entro tot mesi. In pratica le aziende che assumono nuove persone, devono pescare dalla mobilità. Dopo il licenziamento, se si è maturato abbastanza anni di lavoro dipendente, c’è una indennità di disoccupazione per alcuni mesi.

  4. Quindi è diverso. Un impiegato o impiegata redundant continua a percepire lo stipendio dall’azienda che ha licenziato e che, quindi, è direttamente interessata che lui/lei trovi al più presto un’altra occupazione.

    Non sto certamente dicendo che sia la soluzione ottimale, intendiamoci. Sto semplicemente dicendo che, in quel caso, lo stato ha posto delle regole chiare sgravando in parte il lavoratore (qualunque categoria, non solo quelli iper protetti già assunti) dal costo e dal rischio della precarietà.

  5. Sono d’accordo, è diverso e forse in UK il mercato del lavoro dà più opportunità. L’effetto della situazione italiana invece è noto: tendenza a costituire imprese molto piccole, difficoltà a gestire imprese di medio grandi dimensioni, accentuata precarietà del lavoratore.

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